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La fenomenologia della schiscetta.

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Proprio non ci riesco, è più forte di me: ogni volta che mi siedo a tavola, nella nostra sala riunioni che alle 13 si trasforma in sala da pranzo, l’occhio mi cade sul piatto dei vicini. Capita anche a voi?
Per quanto mi sforzi, temo di non riuscire a nascondere le diverse emozioni che la sfilata delle schiscette mi provoca ogni volta: invidia, disgusto, perplessità, fame.
Il pranzo non è solo un momento di necessità biologica, è diventato un campo di studio antropologico.
D’altronde non dico nulla di strano se affermo che attraverso il cibo raccontiamo molto di noi (“Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”) e sicuramente non dico nulla di nuovo se sottolineo che in particolare negli ultimi anni questa ossessione verso il food è diventata un’estensione quasi patologica di un luogo comune.
Noi (plurale maiestatis) ci siamo dentro fino al collo.

Personalmente, da più di dodici anni (considerando lo scorcio di vita eikoniana) guardo i pasti dei miei colleghi e ci vedo molto, troppo: inclinazioni, gusti, idee, idiosincrasie, vite.
Ho raccolto un bagaglio empirico tale per cui mi sento di poter affermare con quasi scientifica certezza che se venissi catapultata in un’agenzia qualunque sarei forse in grado di distinguere il pasto di un grafico da quello di un account, la gluppa di una social media manager, da quella di un’amministrativa.
Fammi vedere la tua schiscetta e ti dirò cosa fai.
Mi spiego meglio. Tecnicamente la schiscetta rappresenta il contenitore con il quale si porta il cibo sul posto di lavoro, per estensione comprende anche la borsa all’interno della quale è posizionato il contenitore stesso e, ovviamente, include anche il pasto. A livello simbolico questo staff è un piccolo microcosmo.

La schiscetta non è solo un oggetto, rappresenta uno state of mind.
C’è chi legge passato e futuro nei tarocchi, chi nei fondi del caffè, chi parla del quotidiano sulla base di una gluppa (o almeno crede di poter imbastire un discorso più o meno sensato sull’argomento).
È questione di stereotipi, di buon occhio o forse di psicosi?
Provate a seguire il ragionamento e ad applicarlo ai vostri pasti in ufficio, forse troverete la risposta.

1. La schiscetta al primo sguardo: l’intuizione.

Quando il pasto fa il suo ingresso in zona pranzo in un miserrimo sacchetto in plastica con vaschetta in alluminio, generalmente la strada che ha compiuto non è tanta: impersonale, triste, ma golosissimo, proviene di certo da una rosticceria o da un alimentari con banco gastronomia (vale per tutti coloro che non vivono in città e non sanno nemmeno cosa sia Deliveroo). In questo caso, l’esperienza insegna che stiamo osservando quasi certamente il pasto di un maschietto, tendenzialmente single o che comunque vive solo. Ecco perché: se il soggetto fosse quotidianamente a tiro di una madre, difficilmente questa permetterebbe all’eterno pargolo di sostituire un suo piatto con quello di una tavola calda; se avesse una compagna/moglie avrebbe ripiegato su una piada o addirittura sul bistrot di turno essendo la sua presenza in ufficio durante la pausa un’eccezione, qualcosa che assomiglia ad una sosta all’Autogrill. Indicazioni sul ruolo: nove volte su dieci il proprietario di questo tipo di pasto è un operativo. Account e project manager infatti sono spesso fuori e, almeno in pausa, stanno meglio di tutti.
Se invece il pranzo arriva in una deliziosa tote bag di lino o cotone grezzo, decorata con la stampa di un’illustrazione botanica o la grafica di qualche museo, possiamo puntare con quasi assoluta certezza sulle quote rosa del reparto creativo: le account infatti hanno sempre borsette stropicciate, spesso residuati bellici di qualche fiera di settore, mentre le social media manager (vittime dichiarate dell’e-shop) hanno la porta-tutto brandizzata.
Come si riconosce al primo sguardo la schiscetta di un copy? Sotto, lascio una reference fotografica: traete le vostre conclusioni.

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2. Il contenitore: la schiescetta in sè per sè.

Questo secondo step di analisi ci dà poche, ma cruciali informazioni in particolare sul carattere del proprietario della schiscetta.
Se il contenitore è in plastica ci troviamo di fronte ad un soggetto pragmatico, non troppo ossessionato dal green, probabilmente un habitué dell’Ikea o della raccolta punti del supermercato. Scalda in microonde, a volte compra cibi precotti, lava in lavastoviglie e si innervosisce ogni volta che qualcuno gli fa notare che “la vaschetta in vetro è migliore”, “i salumi freschi al banco sono più buoni” e “si stava meglio quando si stava peggio”. Tipo intuitivo, estroverso, spesso ultimativo: account manager, web developer, strategic planner sono i ruoli più papabili.

Quella della vaschetta in vetro invece è quasi sempre una lei introversa e sensoriale, vagamente maestra di vita: sicuramente una creativa.

3. L’ingrediente: lo studio della schiscetta in quanto tale, nonché della sua categoria fondamentale.

Potrei fare mille esempi per farvi capire come approcciare questa parte dell’analisi, ma siamo italiani, a volte prevedibili, e ci piacciono i luoghi comuni quindi prenderò come soggetto la pasta.
La statistica è come sempre fondamentale per fare delle previsioni più o meno accurate e state pur certi che se il piatto contiene principalmente carboidrati all’80/85% non apparterrà a una donna.
Facile, direte voi, ma potreste anche farmi notare che in effetti c’è carboidrato e carboidrato… per questo è importante tirare subito in ballo il secondo ingrediente, cruciale per ridurre la nostra probabilità di errore.
Pancetta, fagioli, salsiccia sono indizi chiave: se nel condimento c’è almeno uno di questi ingredienti, o ancor meglio tutti e tre insieme, scommettete sul proprietario di sesso maschile. Non serve nemmeno spiegare il perché.
Zucchina e zafferano invece sono elementi ambigui e potrebbero trarvi in inganno: concentrate l’analisi sul piano quantitativo e sarà tutto più chiaro.
Altri aspetti da non sottovalutare sono: consistenza condimento, utilizzo convulso di cipolla e aglio, colore della pasta. A proposito di quest’ultimo: se è tendenzialmente marrone siamo alla presenza di un junior che ambisce ad uno stile di vita tendenzialmente olistico, non sa ancora che il kamut non è un cereale e finge di apprezzare il suo piatto pur sognando la rosticceria.

4. La mise en plat: l’estetica.

Per concludere possiamo dire che se è vero che l’esperienza estetica è sempre più che estetica (cit. John Dewey) è necessario lasciare la parola al visual storytelling di una pausa pranzo qualunque.
Se volete mettere alla prova la vostra capacità di osservazione e fare tesoro di quanto letto, giocate con noi: osservate questi piatti e provate ad indovinare a chi appartengono… cliccate sull’immagine e scoprite se anche voi siete degli ottimi osservatori, tendenzialmente junghiani.

E se vi dicono che passare la pausa pranzo in ufficio è noioso, non credetegli.

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